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Giovanni da Gaeta e la tavola della Pietà nel Santuario della Madonna del Cielo a Fondi

  • Zaira Daniele
  • 13 mag 2015
  • Tempo di lettura: 9 min

Percorso artistico

Le testimonianze più consistenti del patrimonio pittorico fondano risalgono agli ultimi quaranta anni del Quattrocento, seguenti ad un fenomeno di stasi nella produzione artistica che caratterizzò la prima metà del secolo. Tra gli artisti di maggior spicco che operarono a Fondi, nella contea dei Caetani e nel circondario durante la seconda metà del Quattrocento, accanto a Cristoforo Scacco, Antoniazzo Romano, Riccardo Quartararo, ricordiamo sicuramente Giovanni da Gaeta, nativo di Gaeta.

La personalità del pittore Giovanni da Gaeta, attivo tra il 1449 ed il 1472 circa nel Meridione d’Italia, è stata delineata da Federico Zeri in due articoli pubblicati sulla rivista Paragone rispettivamente nel 1950 e nel 1960, su cui si è basata l’intera storiografia dell’artista, ripresa poi dal Bologna e dalla Navarro.

Inizialmente il pittore gaetano fu identificato con “Giovanni Sagitano” a cui venne attribuita dallo Zeri una tavola raffigurante un Sant’Antonio Abate in trono con una cortina sorretta da due angeli e Dio Padre al vertice, conservata nella Collezione Spirindon di Roma, in cui, a causa di un maldestro restauro, nella scritta presente sul dipinto Giovanni Gaetano fu letto erroneamente come Giovanni Sagitano.

Una delle prime opere attribuite dallo stesso Zeri, nell’articolo del 1950, a Giovanni da Gaeta è la pala col trittico dell’Incoronazione della Vergine, della chiesa di Santa Lucia a Gaeta, datata 1456, punto di partenza per la ricostruzione della carriera artistica di questo pittore locale, la cui formazione avviene nell’ambito della cultura tardo-gotica napoletana impregnata di influssi catalani che hanno caratterizzato, dagli inizi del Quattrocento con gli Aragonesi, l’arte a Napoli, e ritardataria rispetto alle innovazioni fiorentine che si andavano diffondendo.

Giovanni da Gaeta si forma quindi a Napoli, tra il terzo e il quarto decennio del Quattrocento, accanto al lombardo Leonardo da Besozzo, pittore attivo presso la corte aragonese, il quale insieme a Perinnetto da Benevento, è autore del ciclo pittorico della Cappella Caracciolo nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara a Napoli, realizzato tra il 1440 e il 1443 e a cui aveva partecipato lo stesso Giovanni, la cui mano è stata riconosciuta nelle figure, sebbene rovinose, dell’Angelo Annunciante e nel S. Giovanni Battista, le uniche che ci rimangono nel lato esterno sinistro della cappella.

La figura del Battista, di sapore arcaico, la ritroviamo similmente nella tavola con la Madonna delle Ytrie del 1470, raffigurante la Vergine seduta in terra, secondo un modulo compositivo trecentesco che si rifà alla “Madonna dell’Umiltà” sviluppata in primis da Roberto D’Oderisio, di cui ricordiamo la Mater Omnium nella chiesa napoletana di S. Domenico- conservata al Museo Diocesano di Gaeta ma proveniente probabilmente dalla confraternita dei SS. Gregorio e Antonio a Itri, da cui proviene anche l’affresco, staccato e appena in tempo recuperato dalla distruzione, del Sant’Antonio Abate in trono, ricoverato sempre nel Museo Diocesano di Gaeta. Quest’ultima opera, databile al 1460 per gli stretti rapporti con il S. Giovanni Evangelista del Museo Duca di Martina di Napoli, nella fattura del trono e delle mani, è ancora legata ad un certo linearismo gotico visibile nel trono ligneo e negli angeli a mezz’aria, anche se presenta una monumentalità nuova nella figura del Santo.

L’opera di Giovanni da Gaeta nella seconda metà del secolo si arricchisce di quell’irrealismo espressionistico della cultura umbro marchigiana, di cui il folignate Bartolomeo di Tommaso è il rappresentante più esemplificativo. Richiami a tale cultura artistica sono fortemente visibili nel trittico centinato raffigurante, al centro, San Bernardino da Siena tra S. Ludovico da Tolosa e S. Caterina da Siena, oggi alla pinacoteca di Pesaro ma proveniente da Gubbio, massimo centro del tardo gotico umbro, nel gruppo delle Incoronazioni, di Gaeta, di Nizza e di Maiori, e nelle opere di Fondi, ovvero la Natività tra i santi Marciano e Michele Arcangelo e la Pietà, la prima risalente al decennio 1460/70 e la seconda al decennio successivo, corrispondente al periodo tardo dell’attività dell’artista. E’ stato ipotizzato dunque un viaggio dell’artista tra Umbria e Marche verso la metà del Quattrocento a contatto diretto con la pittura umbro-marchigiana.

Le opere mature dell’artista, realizzate dopo il soggiorno umbro-marchigiano, come l’Incoronazione della Vergine e il Crocifisso, un’allucinata immagine di Cristus Patiens, provenienti dalla chiesa di Santa Maria in pensulis a Gaeta, ci testimoniano un distacco netto dai modi del tardo-gotico napoletano, che ispirarono, ad esempio, la Madonna della Misericordia di Ardara, oggi a Cracovia, ancora intrisa di quello spirito iberico proprio del tardo-gotico meridionale alla Colantonio. Esse sono caratterizzate da un espressionismo marcato da una linea vibrante e nervosa, da una cromìa brillante, seppur con una persistenza ancora medievale dell’uso dell’oro nei fondali, e rappresentano il punto più alto di tutta la produzione dell’artista gaetano.

E’ da notare che tutte le opere di Giovanni da Gaeta realizzate in territorio natale si fanno risalire alla maturità e alla piena maturità artistica, o all’ultima fase dell’attività del pittore, quando si registra quasi un’involuzione stilistica nella ripresa di moduli tardo-gotici usati nelle primissime opere giovanili, con il prevalere di un patetismo caricaturale dai colori cupi, lontano dai toni squillanti delle opere precedenti, che convergono nelle formule convenzionali che possiamo notare nel Redentore di Sezze. Addirittura in alcuni brani pittorici, come nell’affresco raffigurante S. Orsola e le dodici Vergini, databile dopo il 1470, attualmente custodito al Museo Civico di Gaeta ma proveniente dalla chiesa di San Domenico, caratterizzato da modi quasi giotteschi, appare preponderante l’apporto della bottega. Infatti Giovanni da Gaeta dal 1472 si autodefinisce magister, ovvero regolarmente iscritto alla Corporazione dei pittori e dunque a capo di una bottega.

Lo stile di Giovanni da Gaeta ha influenzato notevolmente le opere di ignoti pittori locali: lo si riconosce vagamente in vari dipinti del circondario, come ad esempio negli affreschi della cappella di Loreto nel Duomo di S. Pietro in Fondi, ascrivibile a suoi seguaci.

La Pietà

Due sono le opere fondane di Giovanni da Gaeta che si possono ammirare da oltre due secoli nel Santuario della Madonna del Cielo: si tratta di due tavole a tempera, la Natività tra i santi Marciano e Michele Arcangelo e la Pietà, trafugate il 26 marzo 1977, recuperate nel 1982 e poi restaurate per i danni subiti dal vandalico furto. Il trittico della Natività, di poco anteriore alla Pietà, da collocarsi tra il 1460 e il 1470, è l’opera dell’artista in cui si notano maggiormente gli influssi senesi nell’impostazione della scena centrale, dove la Vergine e S. Giuseppe, inginocchiati a terra tra i ciuffi erbosi a rendere omaggio al Bambinello, sono inquadrati dall’arco a sesto acuto della grotta, come in una cattedrale gotica, al di sopra della quale si erge un paesaggio montuoso minuziosamente descritto, con una scena di vita pastorale, mentre emergono dal fondo oro i tre angeli annunzianti. Questa rappresentazione, che si rifà alle Natività di un Giovanni di Paolo o di un Sano di Pietro, trova riscontro nell’opera del pittore umbro Bartolomeo di Tommaso. Rientrano, invece, nella più consueta tradizione le figure dei due santi laterali, fuoriuscenti sempre dal fondo dorato. Tutte le scene sono inserite entro sagome trilobate, ai cui angoli sono dipinti profeti con i loro nomi scritti sui cartigli. Sulle cuspidi sono dipinte, invece, l’Annunciazione, nelle due laterali e nella centrale il Cristo benedicente tra due angeli, che sembra preannunciare nello stile il tardo Cristo benedicente di Sezze.

La Pietà, appena restaurata e ritornata in loco, probabilmente proveniente da Gaeta, si colloca nel periodo tardo dell’attività dell’artista, ovvero nel decennio 1470/80.

Nella scena inquadrata in una cornice trilobata, è raffigurata la Vergine dolente, che rivolge il suo sguardo al figlio morto in grembo. Alle spalle, sul fondo dorato una grande Croce alla quale sono appesi gli strumenti della Passione, le tenaglie, le fruste della flagellazione, i chiodi, il martello. Ai lati due angeli inginocchiati ripetono il dolore della Madonna; in basso, a sinistra, è raffigurato l’ignoto committente in preghiera sullo sfondo di un paesaggio desolato e al di sopra di questo vi è una targa con la scritta: “Hic est que in cruce pepe/ dit pro salute generis hu/mani et me peccatorem/suo preziosissimo san / guine redemit”.

Il corpo disseccato del Cristo morto, dalle membra livide e scarnificate, dai tratti quasi caricaturali, manifesta evidenti analogie con il Cristo del Crocifisso di Santa Maria in Pensulis di Gaeta, che appartiene ad un gruppo di croci laziali e campane su legno sagomato, molto diffuse nel Quattrocento, la cui origine fiorentina risale a Lorenzo Monaco. Il Cristo della Pietà di Fondi è caratterizzato da quella carica sentimentale e da quel patetismo proprio dei senesi tardi, sulla scia di Roberto d’Oderisio, testimoniato a Napoli dal trittico di Paolo di Giovanni Fei nella Cattedrale. Inoltre il Cristo, dall’anatomia dura e impietosa, da intaglio ligneo, e la Madonna dal capo reclinato e i lineamenti contratti dal dolore, riprendono quel caratterismo tipico di Niccolò Alunno che troviamo anche in un pittore coevo, di formazione simile a quella di Giovanni da Gaeta, il siciliano Pavanino palermitano.

Il tema della Pietà, costituito dalla Madre col corpo del Cristo morto in braccio, distinta dal Compianto sul Cristo morto, in cui compaiono anche altri personaggi, si sviluppa dapprima in Europa settentrionale alla fine del Quattrocento, in Germania i dipinti raffiguranti questo soggetto erano chiamati Vespelbilder (immagine del vespro). Raffigurazioni naturalistiche e fortemente espressive della Pietà le troviamo nella produzione dei “Primitivi fiamminghi”, come ad esempio il tedesco Memling, uno dei protagonisti del Rinascimento fiammingo attivo nella seconda metà del Quattrocento a Bruges, che influenzò molto la pittura italiana dell’epoca, per gli stretti rapporti commerciali che vi erano tra le ricche famiglie delle principali signorie italiane con le Fiandre: egli fu molto ripreso da pittori italiani quali il Ghirlandaio, Botticelli, Filippo Lippi e Giovanni Bellini che realizza alcune tavole con la Pietà conservate nella Pinacoteca di Brera, in cui sia il Cristo che la Madonna hanno il volto dolente. Sembra quasi impossibile che Giovanni da Gaeta, al termine della sua carriera, stabilitosi nella sua città natale, possa aver avuto contatti con i pittori fiamminghi giunti in Italia o con qualche pittore Italiano del centro-nord, da cui avrebbe potuto vedere il nuovo tema della Pietà che tanto successo ebbe poi nel Cinquecento, a partire dalla famosa Pietà di San Pietro di Michelangelo, in cui però la Madonna giovane e il Cristo hanno il volto sereno, mentre lo schema compositivo é di ascendenza nordica. Ne c’erano nella pittura dell’Italia meridionale prima che Giovanni da Gaeta realizzasse la Pietà di Fondi esempi di Pietà con le stesse caratteristiche presenti nelle Pietà di influenza fiamminga, anche se queste ultime dobbiamo tener presente, avevano uno stile avanzato, pienamente rinascimentale, mentre il nostro pittore rimane legato ad uno stile tardo gotico, riprendendo nella mimica facciale del dolore che contraddistingue la Madre e il Figlio l’accentuata espressività sconfinante nel patetismo propria della pittura senese post-giottesca, che ritroviamo a Napoli in Roberto d’Oderisio. Esistevano tuttavia delle sculture in terracotta o legno colorato di piccolo formato raffiguranti il tema della Pietà risalenti alla metà del Quattrocento che seguono già il nuovo schema compositivo: in alcune di esse il Cristo è rinsecchito e dolente, mentre la Madonna ha il volto rasserenato, in altre anche la Madonna è segnata in volto dal dolore straziante. Possiamo affermare che la Pietà di Giovanni da Gaeta è una Pietà un po’ insolita e precoce rispetto ai tempi nella pittura meridionale, che ha delle caratteristiche particolari nella sua composizione, quali gli strumenti della Passione appoggiati alla grande Croce, che avranno un particolare successo e verranno riprese da vari pittori locali successivamente.

Un immediato confronto con la Pietà di Fondi ci è dato dall’affresco raffigurante la Pietà tra la Vergine e S. Giovanni Evangelista, datato allo stesso decennio, un tempo collocato in un’edicola ogivale nel refettorio del convento di S. Francesco a Gaeta, oggi custodito con la sua sinopia al Museo Diocesano di Gaeta, dove è raffigurato, al centro, il Cristo morto, all’interno di un sarcofago e appoggiato alla grande croce su fondo azzurro, che reca, come nella Pietà fondana, i simboli della Passione, mentre, ai lati, più in basso, vi sono la Vergine e S. Giovanni Evangelista. Identica è, nei due dipinti, la suddivisione degli spazi scandita dalla Croce. Analogie vi sono anche nella tipologia della Vergine che riprende quell’esasperato caratterismo di Niccolò Alunno nel dipinto della Cattedrale di Foligno, databile al 1460. Il Cristo invece, anche se caratterizzato dal discrettivismo anatomico di ascendenza senese che troviamo precedentemente nel Crocifisso di Gaeta, ha toni di più pacata umanità.

Un’altra opera che si avvicina molto nello stile e nella composizione alla Pietà di Giovanni da Gaeta è un affresco a tempera situato nella chiesa parrocchiale, dedicata a S. Tammaro, di un casale presso la normanna Casaluce in provincia di Caserta, che raffigura il Compianto sul Cristo morto, dove Maria, che indossa un mantello azzurro su una veste arancione, è seduta ai piedi di una grande Croce, da cui pendono, anche qui, alcuni emblemi della Passione, un modello iconografico molto diffuso che troviamo riprodotto soprattutto nelle numerose cappelle dedicate al culto della Pietà. Ella, dal viso caricato dal dolore, tiene tra le gambe il figlio morto, mentre, a sinistra, vi è Giuseppe d’Arimatea che regge il lenzuolo usato per la deposizione. L’opera si presenta legata ai modi e ai motivi della pittura tardo-gotica ancora diffusi alla fine del Cinquecento, tra il basso Lazio e la Campania settentrionale, che caratterizzano la tarda attività di Giovanni da Gaeta, la cui opera, come possiamo vedere già nella Pietà, dai colori più spenti rispetto alle opere del decennio precedente, nella fase finale della sua carriera, recupera vecchi stilemi del tardo-gotico, subendo una sorta di voluta involuzione.

Zaira Daniele

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2-Giovanni_Pietà.jpeg

3-crofisso-giovanni.jpg

4-Cristo_in_Pietà.jpg

5-Compianto di Casaluce.jpg

1)Giovanni da Gaeta, Santuario della Madonna del Cielo, Fondi

2)Giovanni da Gaeta, , Santuario della Madonna del Cielo, Fondi

3)Giovanni da Gaeta, , Museo Diocesano, Gaeta

4)Giovanni da Gaeta, , Museo Diocesano, Gaeta

5)Ignoto pittore campano del XV secolo, Compianto


 
 
 

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